Paolo Sacchini

Volti, occhi, sguardi.

«O, I could weep my spirit from mine eyes!»

William Shakespeare

L’occhio è davvero il più prezioso fra gli organi del senso, e il suo dominio sugli altri ha permesso all’intelletto umano di dar vita alla civiltà. Vedere significa prendere coscienza dell’ambiente: equivale a “sapere”, possedere il mondo, dominarlo: è “potere”, agire sul mondo non solo con le mani, ma anche con l’anima. L’uomo primitivo è diventato sapiens, e anche faber, grazie alle mani, che sarebbero state, tuttavia, inutili, se non le avesse guidate la vista.1 

Credo sia davvero difficile illustrare con parole più chiare di queste tutta l’incommensurabile importanza che l’occhio – o forse ancora meglio lo sguardo che da esso nasce – ha avuto nell’orientare la storia e la stessa evoluzione biologica del genere Homo, che proprio grazie ad esso ha in effetti potuto prima conoscere, poi governare e infine modificare secondo i propri progetti il mondo delle cose. Sarebbe dunque impossibile sottovalutare l’importanza del ruolo che esso ha giocato, ed è anzi proprio per questo motivo che la fotografia scattata da Waldemar Deonna risulta particolarmente precisa: in sostanza, cioè, in virtù della sua «primarietà»2 rispetto agli altri organi di senso, l’occhio ha sempre in qualche modo costituito «il medium per eccellenza», ovvero quello che «permette all’intelligenza di distinguere e di discernere, di riconoscere e di apprezzare, di dispiegarsi insomma pienamente»3. Tuttavia, non è solo sotto questo aspetto eminentemente pratico e concreto che l’occhio ha influito sulla nascita e sull’evoluzione della società umana: al contrario, invece, sebbene in tal senso il suo apporto sia stato forse meno tangibilmente evidente, esso ha anche contribuito – e in maniera non marginale – a riempire la vita spirituale dell’uomo, concorrendo a depositare in essa una serie di credenze consce ed inconsce che negli atti della vita di ogni giorno si manifestano tra l’altro con un’insospettata frequenza, a testimonianza della capacità – da parte dell’occhio – di agire sulla nostra sensibilità non solo estetica ad un livello che definirei strutturale. Deonna, anzi, ha addirittura potuto parlare della sotterranea presenza, in ogni uomo, di una vera e propria «ossessione» nei confronti dell’organo della vista, che ad esempio conduce ciascuno di noi ad identificare inconsciamente con la familiare immagine dell’occhio tutto quanto ad esso si può anche solo latamente avvicinare per forma e caratteristiche (ad esempio il sole e la luna, le pietre brillanti – e dunque vive e mobili – come il diamante, le finestre di una casa, gli ocelli del manto di un pavone)4; in sostanza, cioè,

L’occhio, con i suoi significati reali o simbolici, occupa di continuo la vita dell’uomo, nel tempo della veglia come nella vita onirica. A tale ossessione il pensiero dà forma, nel linguaggio quotidiano e nella lingua poetica, nelle arti figurative, e in ogni stato mentale: normale, dal bambino all’adulto, o patologico, come quello degli alienati o dei medium; e ancora, in tutte le fasi culturali delle civiltà primitive – fin dall’arte paleolitica – ed evolute.5

Sono moltissime le testimonianze in tal senso che il grande archeologo svizzero allinea nel suo testo, che è straordinariamente colto e ricchissimo di riferimenti eppure assai piacevole e scorrevole alla lettura. In particolare, per non restare che a ciò che più ci interessa, si pensi all’abitudine di utilizzare l’occhio quale pars pro toto in rappresentanza dell’intero individuo: la si può agevolmente riscontrare, ad esempio, nelle raffigurazioni di numerose divinità del mondo antico, che hanno potuto essere significate tanto con una rappresentazione – diciamo – “a figura intera”, quanto con una semplice e sintetica “abbreviazione” oculare, che aveva il compito di comunicare sinteticamente al fedele – proprio tramite questa sorta di ingigantita evidenza dell’occhio – i concetti dell’onniscienza, dell’onnipresenza e dell’onniveggenza del dio. Nell’antica Grecia, ad esempio, era talvolta rappresentata con i soli occhi la figura della Gorgone, mentre in Egitto era Horus ad essere simboleggiata da un solo occhio; e ancora, per venire più vicino a noi, lo stesso dio cristiano è stato rappresentato da un occhio inscritto nel triangolo della Santissima Trinità. Ma perché può accadere questo? Perché, cioè (ed è questo, nel discorso che abbiamo impostato, che ci interessa maggiormente), l’occhio può essere utilizzato per rappresentare l’individuo intero? È presto detto: perché l’occhio – spiega ancora Deonna – rappresenta simbolicamente «la sede della vita e della personalità, insomma dell’anima»6. Nell’egiziano Libro dei Morti, Rā sostiene di dimorare «nell’occhio divino»7, e anche Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, accenna a questa antichissima concezione:

Indubbiamente l’anima abita negli occhi. Con l’anima vediamo, con l’anima distinguiamo: gli occhi, come fossero canali ricevono da lei la capacità visiva, e se ne fanno tramite. In tutti gli animali nessuna parte del corpo indica lo stato d’animo meglio degli occhi, ma soprattutto nell’uomo.8

Ecco, mi pare proprio questa la chiave interpretativa più pertinente per leggere questi volti, questi occhi e questi sguardi di Clelia, che sono dunque tutti più o meno inconsciamente carichi di questa sorta di abissale e vertiginosa profondità antropologica. In altre parole, cioè, quelli delineati da Clelia non sono semplicemente degli occhi che rappresentano se stessi (al contrario, anche nei casi di maggior somiglianza al modello mi pare che questa sia una funzione decisamente secondaria, se non addirittura del tutto marginale); piuttosto, questi sguardi che emergono dal fondo dei dipinti sembrano indicare – o forse ancora meglio indagare in profondità – un recondito stato di coscienza, un inestricabile e quasi materico groviglio di vissuto e di sensazioni, un’intimità nascosta e magari inconfessata. E d’altra parte, non è certo un caso che Merleau-Ponty abbia potuto precisare che la pittura, e il vedere che ad essa è connessa, altro non sono se non un «immergersi nelle cose senza altro motivo che di cogliere la verità»9; e certamente Clelia, pur forse senza conoscere direttamente questo pensiero del filosofo francese, ne condivide la posizione, tanto che – se anche non bastasse quanto quotidianamente afferma quando parla della sua pittura – una testimonianza esplicita (e scritta) in tal senso l’ha lasciata nel testo di autopresentazione per una sua personale di qualche anno fa, in cui si legge tra l’altro che

Lo scopo dell’autrice è sempre il medesimo: intervenire sul supporto attraverso gesti che siano completamente soggettivi e incondizionati. […] Questa espressione non ammette scontati cliché, non ammette titubanze, ma soprattutto non ammette ipocriti raggiri opportunistici: punta alla verità.10

Per esprimere questa sua verità attraverso gli occhi e gli sguardi, Clelia utilizza – innanzitutto – il tradizionale medium pittorico, e poi, all’interno dello spettro di possibilità da esso offerto, un linguaggio ed una sintassi che si possono ben definire (pur con qualche episodico distinguo) «espressionisti». A questo proposito, però, si impongono almeno due riflessioni: la prima e più assillante riguarda il significato profondo, oggi, di un’arte come la pittura (ma lo stesso discorso potrebbe essere esteso alla scultura, ad esempio); la seconda, invece, concerne più nello specifico quel linguaggio che appunto chiamiamo «espressionista». Cominciamo dalla prima. Per un artista, specie se giovane, optare oggi per la strada della pittura tout court (ovvero della pittura “pura” e per così dire tradizionale) equivale a compiere una scelta piuttosto coraggiosa, soprattutto se la sua intenzione – come accade proprio a Clelia – non è quella di sondare le potenzialità di ciò che più o meno impropriamente si definisce «astrazione», ma al contrario quella di proseguire nell’indagine delle residue possibilità della figura. Almeno negli ultimi cinque decenni, infatti, chi ha continuato ad esplorare tali sentieri creativi ha sempre rischiato – e spesso, purtroppo, anche indipendentemente dalla qualità dei risultati che riusciva ad ottenere – di essere considerato una sorta di dinosauro dell’arte attardato su posizioni estetiche e su mezzi espressivi ormai sorpassati e inattuali, e per questo giudicati sostanzialmente incapaci di interpretare le inquietudini della più stretta e scottante contemporaneità. Con l’emergere sempre più prepotente della perfomance e dell’happening, della fotografia e del video, dell’installazione e dell’ambiente, la pittura è stata purtroppo vista anche da molti addetti ai lavori, e persino da una parte considerevole degli artisti, come un medium ormai privo di senso: l’apice si è toccato forse negli anni Settanta, quando l’affermazione del concettuale più spinto ha a tal punto sminuito l’importanza dell’«opera» che essa poteva addirittura scomparire, per essere magari sostituita da un foglio dattiloscritto che illustrava il pensiero dell’artista (il «concetto», appunto); e in tal senso, a loro modo, contribuivano a rafforzare questa ipotesi dell’inattualità della pittura anche tutti quei critici – tra cui va ricordato almeno Giulio Carlo Argan – che per varie ragioni postulavano come ormai avvenuta, o comunque prossima, la definitiva «morte dell’arte»11 (non intendendo dire, con questo, che non sarebbe più stato possibile godere di esperienze estetico-artistiche soddisfacenti, ma intonando comunque un sonoro de profundis per il concetto tradizionale di arte, ovvero per l’idea di arte quale attività sostanzialmente artigianale che – pur avendo come primaria finalità quella di trasmettere un pensiero – si concretizza in fondo nella realizzazione di un pezzo manufatto ottenuto mediante l’applicazione di un sapere tecnico-pratico).

Personalmente, ho sempre pensato che la pittura e la scultura non siano affatto morte. Con questo – lo preciso subito – non è mia intenzione sminuire il valore e le potenzialità dei nuovi media che nel corso dei decenni si sono affiancati alle forme d’arte più tradizionali: sarebbe quanto meno miope – nell’era di internet, di YouTube e degli smartphone – negare che un video (ed è solo uno dei possibili esempi) abbia maggiori possibilità di avvicinarsi al più intimo sentire del nostro tempo, o se non altro a certe sue peculiari idiosincrasie che altre epoche non hanno conosciuto, e che forse avrebbero avuto difficoltà ad interpretare; tuttavia, dall’ammettere questo a celebrare il funerale di forme d’arte con una storia millenaria, credo che passi parecchia strada. Certo molti degli artisti più significativi degli ultimi decenni (e penso ad esempio a Joseph Beuys, a Nam June Paik, a Marina Abramovic) hanno per lo più preferito creare attraverso altri media; tuttavia, non credo si possano tacciare di superficialità, né tanto meno di inadeguatezza ai tempi, interi decenni di pittura di un Francis Bacon (cui peraltro la Adami ha dedicato la sua tesi di diploma accademico quadriennale)12 o di un Anselm Kiefer.

Il problema, insomma, credo lo avesse già ben fotografato Jean Clair nel 1983, in quella sua Critica della modernità13 che era per certi versi l’ideale prosecuzione della grande mostra che il Centre Pompidou – da lui diretto – aveva dedicato ai Realismes14: a causa dell’affermazione di una malintesa ed oltranzistica interpretazione del concetto di avanguardia, ad un certo punto si era stabilito un dominio assoluto del «nuovo ad ogni costo», che – nel rifiutarsi recisamente di accettare qualsiasi ritorno all’indietro – aveva condotto all’instaurazione di una quanto meno paradossale «tradizione della rottura» o «tradizione dell’antitradizione», che consisteva sostanzialmente nel rifiutare a priori ogni cosa che fosse già stata fatta o vista, e che portava con sé – quale inevitabile corollario – anche una esplicita condanna nei confronti di ogni possibile tangenza con le forme d’arte più tradizionali. Tuttavia, se tutti siamo d’accordo sul fatto che non avrebbe senso sottoporre l’espressione artistica a qualsivoglia regola, è anche chiaro che quest’ultimo concetto non può tradursi solamente in un atto di difesa nei confronti di quelle forme d’arte che Renato Barilli definirebbe «esplosive» (ovvero, semplificando, innovative), ma deve anche necessariamente applicarsi alla difesa delle forme d’arte cosiddette «implosive» (ovvero, ma anche qui banalizzando un po’ il pensiero barilliano, tendenti al recupero di una tradizione)15. Se insomma il video e l’installazione meritano rispetto ed ampio spazio di manovra, lo devono meritare anche la pittura e la scultura.

Posto questo, alcune riflessioni vanno fatte anche a proposito della scelta di Clelia di sposare questo linguaggio espressionista. Innanzitutto è bene precisare che nel nostro caso, parlando di «espressionismo», non si intende riferirsi esclusivamente agli esiti di certa pittura primo-novecentesca a proposito dei quali tale definizione è particolarmente calzante (ovvero ai fauves, alla Brücke, al Cavaliere Azzurro o alla Nuova Oggettività, cui pure Clelia – e lo vedremo – guarda certamente); piuttosto, in questo caso parlando di «espressionismo » si vuole semmai alludere ad una atemporale categoria della comunicazione, ad una sorta di sempreverde idioma visivo che è dato riscontrare non solo lungo tutto il XX secolo (con una presenza particolarmente vigorosa in Germania16, ma non senza svol- gimenti anche nel nostro paese17), ma più in generale nell’intera storia dell’arte, specie in quei periodi in cui l’urgenza espressiva del singolo – magari anche urlata e incontrollata – ha sovrastato la necessità di rigore formale e la ricerca di armonia. Tuttavia, una volta detto questo, è altresì chiaro che è proprio nel corso del Novecento che questa esigenza comunicativa dell’individuale ha riscosso – per svariate ragioni – particolare fortuna, al punto che credo colga veramente nel segno Mauro Corradini quando – nell’introduzione ad un suo volume, e citando tra l’altro Konrad Fiedler – individua nel «cambiamento del “punto di vista”, dal “fuori-di-noi” al “dentro-dinoi”»18 la principale e fondante peculiarità dell’arte del XX secolo (che è peraltro «secolo breve» – precisa ancora Corradini – nella storia, ma che forse è invece «secolo lungo» nel campo dell’arte, poiché di fatto, in tale ambito, l’ultimo Ottocento e il primo Duemila risultano ad esso ancora legati a doppio filo19).

Oggi credo si possa dire che la pittura e la scultura – nonostante le catastrofiche previsioni – non sono morte, anche se è innegabile che una parte consistente della loro visibilità sociale sia stata ormai erosa da altri media almeno apparentemente (ma forse anche sostanzialmente) più “attuali”; ma d’altra parte il concetto di inattualità, come ha insegnato Nietzsche trattando di Schopenhauer, è qualcosa che in fondo non inficia il valore essenziale delle cose e delle riflessioni. E dunque Clelia dipinge; e lo fa, abbiamo detto, affidandosi alla sintassi e al linguaggio dell’espressionismo, a suo tempo creati proprio per consentire all’artista di addentrarsi quasi da spettatore esterno – benché tremendamente sofferente – nei recessi più nascosti della propria intimità, portandoli alla luce. E in particolare Clelia dipinge appunto volti, occhi e sguardi, forse perché i ricordi di saperi ancestrali sono più forti della coscienza, e allora gli occhi continuano ad avere quelle qualità quasi magiche cui abbiamo accennato, per cui li possiamo considerare culla dell’anima. Con una sola precisazione: perché l’anima che Clelia legge negli occhi della sua modella non è solamente quella di Paola o di Tecla, di Luciana o di Nadesh; semmai, anzi, nell’anima che – parafrasando il Cassio del Giulio Cesare shakespeariano – piange dagli occhi di ciascuna di queste ragazze, Clelia legge soprattutto la propria anima, la sua personale irrequietezza, i suoi dissidi interiori: e del resto, secondo la psicologia dell’arte, in fondo all’inconscio dell’artista ogni ritratto da lui realizzato non è altro – in realtà – che un autoritratto, un sosia, un doppio sé stesso, poiché l’artista stesso, se vuole ritrarre colui che ha dinnanzi senza limitarsi alla pura apparenza ottica, deve sempre in qualche modo comprenderne in profondità la più intima essenza, e questo lo può fare solo proiettando «parti del suo Io nel modello, perché questo è il modo per assimilarlo, per renderlo congeniale e quindi per comprenderlo»20. Ma come è giunta, Clelia, a questo tipo di pittura? Quando matura, cioè, in lei, l’esigenza di sposare e fare propri i codici dell’espressionismo? Premesso che il suo percorso è per forza di cose breve (per banali ragioni anagrafiche, poiché ad oggi non ha nemmeno ventotto anni), è tuttavia possibile individuare, anche all’interno delle opere esposte in mostra, una progressione stilistica di cui Clelia stessa, con spiccata lucidità, ha illustrato le ragioni profonde nella sua tesi di diploma accademico specialistico21, che è dunque un documento assai utile per comprendere l’ispirazione ultima della sua arte e dal quale quindi si partirà per approfondire l’analisi. Nella sua tesi, Clelia ha proposto un percorso scandito da trentatré opere pittoriche (nonché da cinque sculture di cui tuttavia non si tratterà), individuando all’interno di tale cammino tanto i più decisivi momenti di snodo quanto le stasi più problematiche. Non è possibile, naturalmente, affrontare un esame serrato di tutte le opere in questione (che sarebbe comunque interessante anche in virtù delle precisazioni di Clelia relativamente alle motivazioni che di volta l’hanno condotta ad adottare questa o quella tecnica); mi pare però che sia già molto significativo il sottotitolo dell’introduzione della tesi, che recita emblematicamente Dalla tecnica all’espressività: qui, insomma, con l’efficacia della formula icastica, Clelia ha condensato in quattro parole il senso ultimo della sua ricerca, che – iniziata all’insegna della pura e semplice applicazione dei mezzi tecnici – si è poi progressivamente spostata verso l’espressione della sua individualità, secondo un iter che del resto è piuttosto comune tra i giovani artisti che frequentano l’accademia. In qualche modo, cioè, al fine di trovare una propria strada personale la Adami ha sentito la necessità di infrangere – ma solo dopo averle solidamente acquisite – le regole e le tecniche accademiche, pur con l’avvertenza – da lei stessa segnalata – che tale infrazione non è di per se stessa sufficiente, poiché rischia di tramutarsi semplicemente in un’azione ingiustificata che la renderebbe una «scappatoia da porre sullo stesso piano della tecnica classica»22; in altre parole, cioè, pur giungendovi per una via assolutamente personale, Clelia non fa altro che dire esattamente ciò che sosteneva Jean Clair a proposito dell’inefficacia del gesto che vuole essere antitradizionale ad ogni costo.

Veniamo infine ai possibili modelli di Clelia, agli artisti cui può aver guardato con maggior interesse e che in maniera più o meno inconscia possono averla influenzata. A premessa, vorrei innanzitutto sottolineare come sulle inquadrature delle opere di Clelia incida in maniera abbastanza evidente la fotografia. Come moltissimi pittori da Toulouse-Lautrec in avanti, anche la Adami lavora infatti spesso fotografando il soggetto ed utilizzando in seguito lo scatto ottenuto quale base per realizzare il quadro; e in effetti, se si guarda ai dipinti, si nota chiaramente come i tagli prospettici e i punti di vista siano in buona parte dei casi spiccatamente fotografici: si pensi a Nadesh e a Espressionismo, a Intenso e a Occhi colorati, e più in generale al fatto che la stessa formula del primissimo piano, o ancor più del dettaglio, è tipicamente fotografica e cinematografica più che pittorica (tanto che se si guarda alla ritrattistica dei secoli precedenti l’invenzione della fotografia e del cinema si può agevolmente notare come inquadrature tanto ravvicinate siano quasi del tutto assenti). Un primo importante punto di riferimento è esplicitamente dichiarato nel titolo di un’opera: Schiele. In effetti l’espressionismo del maestro viennese è un elemento che si coglie in più di qualche opera: ad esempio, oltre che nel dipinto che lo ritrae (in cui il viso scarnificato e sofferente del pittore viene rialzato di tono e reso ancora più drammatico dall’applicazione di colori acidi), il nervoso tratto grafico schieliano si coglie ad esempio nel Volto disegnato a fusagine, scavato nei lineamenti come a creare una sorta di tremenda maschera funebre, in cui la polvere del carboncino è sfumata quel tanto che basta per creare sul viso ombre inquiete, e in cui gli occhi grandi trasmettono il segnale di una acuta disperazione; oppure, ancora, è possibile coglierne l’influenza nella Donna in bianco e nero del 2005, in cui però i toni lividi, ma comunque rosati, tipici di Schiele, assumono invece sfumature bluastre. Proviene dal mondo secessionista della capitale austriaca anche un secondo sicuro punto di riferimento di Clelia, ovvero Oskar Kokoschka: rispetto al più giovane amico e collega, Kokoschka ha optato – anche in virtù di un’esistenza ben più lunga, che gli ha consentito di conoscere molte e diversificate esperienze – per una pittura più pesantemente materica e per così dire più «barocca», che anche sul piano cromatico è più intensa ed energica. Tra le opere in mostra, una vena kokoschkiana si può quindi riconoscere nella materia pittorica dei Tre corpi e della Ballerina piccola, e in parte anche nel  Donna di colore e nel Volto di donna, in cui ultimo – sulla nera pelle di Luciana – le lumeggiature bianche creano un effetto cromatico di potente suggestione. Non mancano poi i riferimenti all’espressionismo tedesco, soprattutto quello della Brücke ma anche quello della Neue Sachlichkeit: taglienti profili alla Kirchner, ad esempio, fanno capolino nei volti di Espressionismo, del Volto piccolo e delle Giovani contadine thailandesi (quest’ultima una juta dal soggetto e dal taglio insoliti, per Clelia, ma in cui le impetuose pennellate restituiscono un’atmosfera di ansiosa irrequietezza); altrove sembra invece di cogliere certi trattamenti superficiali alla Nolde (il Corpo blu in acrilico su carta), o ancora dei volti di ispirazione beckmanniana (Dipinto 1). Infine, sebbene Clelia sia per lo più fedele ad una figurazione che – per quanto deformata in senso espressionistico – risulta comunque agevolmente riconoscibile, in alcune tra le sua ultime prove i tratti dei volti si fanno talora più confusi (è ad esempio il caso della Donna su acciaio e di Mistero di iniquità); e per un attimo, se non ci fossero quegli occhi e quegli sguardi che sempre scrutano lo spettatore, sembrerebbe di trovarsi dinnanzi ad un’esplosione quasi astratta, o comunque – diciamo – a certi brani di un «espressionismo astratto» alla De Kooning, sebbene la pittura di Clelia sia senz’altro meno violenta negli esiti rispetto a quella del maestro olandese. E allora, anche se è ovviamente impossibile fare previsioni sul futuro del suo percorso, non mi stupirei se fra qualche anno l’espressione della sua inquietudine si dirigesse prevalentemente proprio su questa strada, ovvero verso la creazione di pure matasse di materia e puri grovigli di colori incandescenti. Ma anche se ciò accadesse, non si tratterebbe, comunque, di una sconfessione di quanto fatto sino ad ora: nel suo percorso dalla tecnica all’espressività, queste materie pittoriche astratte corrisponderebbero anzi – semplicemente – ad un ennesimo sguardo nell’anima. Anche se in quel caso l’anima sarebbe quella, profondissima e antichissima eppure non meno moderna, della materia stessa.

1. Waldemar Deonna, Il simbolismo dell’occhio, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 3.
2. Ibidem.
3. Anne Sauvageot, Sguardi e saperi. Introduzione alla sociologia dello sguardo, Roma, Armando Editore, 2000, p. 13.
4. W. Deonna, Il simbolismo dell’occhio, cit., pp. 4-6.
5. Ivi, p. 4.

6. Ivi, p. 11.
7. Ivi, p. 14.
8. Ivi, p. 12.
9. Maurice Merleau-Ponty, Senso e non senso, Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 35.
10. Si tratta dell’introduzione alla mostra personale Senza condizioni, Concesio, Biblioteca Comunale, 24 maggio - 6 giugno 2009 (Concesio, archivio dell’artista).

11. Giulio Carlo Argan, L’arte moderna. Il secondo Novecento, Firenze, Sansoni per la Scuola, 2001, p. 60.
12. Clelia Adami, Corpo & Sensazione tra Artaud, Bacon e Deleuze. Spunti di fenomenologia della pittura, tesi di diploma accademico quadriennale, rel. Eugenio De Caro, Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia, Scuola di Pittura, a.a. 2004-2005. Peraltro, nell’introduzione alla tesi stessa (in cui Clelia analizza rapidamente il suo percorso e le difficoltà incontrate nel tentativo di abbandonare la strada della figurazione accademica, e che è significativamente sottotitolata Contro la figurazione: osare di più), compare un interessante giudizio – che vale la pena citare – relativo all’influenza, sulla sua formazione, della conoscenza dell’opera di Bacon: «Senza dubbio l’opera di Francis Bacon si è dichiarata un’incisiva e convincentissima proposta, la quale presenta un tipo di pittura che è stata in grado di farmi riflettere sulle possibilità che mi si spalancano dinnanzi, istigandomi ad adottare un atteggiamento più deciso nei confronti della pittura stessa, e quindi ad osare di più. Ho rilevato come svanisca l’incertezza di una Figura diversa da quella rispettante le leggi classiche canoniche e prospettiche e come la volontà di compiere questo passaggio di rapporti si faccia forte e consapevole. Penso che il risultato (più o meno riuscito) di tale procedimento, saprà portarmi ad una particolare soddisfazione, in quanto proveniente dall’immagine di una Figura che, nonostante non sia la bella copia dal vero, potrà emanare tutta la sua forza, la sua preziosità e il suo fascino nella potenza dell’espressione della sensazione» (pp. 1-4: 4). Sulla questione della formazione dell’artista si tornerà in seguito.
13. Jean Clair, Critica della modernità, Torino, Umberto Allemandi & C., 1984.
14. Les realismes (19191-1939), catalogo della mostra Parigi, Centre Georges Pompidou, 17 dicembre 1980 - 20 aprile 1981, Parigi, Centre Georges Pompidou, 1980.
15. Per i concetti di «esplosivo» ed «implosivo» cfr. ad esempio Renato Barilli, Prima e dopo il 2000. La ricerca artistica 1970-2005, Milano, Feltrinelli, 2006.

16. A proposito della continuità del linguaggio espressionista in Germania lungo l’intero XX secolo, si veda L’espressionismo. Presenza della pittura in Germania (1900-2000), catalogo della mostra Torino, Palazzo Bricherasio, 25 ottobre 2001 - 27 gennaio 2002, Milano, Electa, 2001.
17. Si veda Renato Barilli, a cura di, L’espressionismo italiano, catalogo della mostra Torino, Mole Antonelliana, 12 aprile - 17 giugno 1990, Milano, Fabbri, 1990.
18. Mauro Corradini, Lo sguardo interiore. Compendio di Storia dell’Arte dalle Avanguardie storiche all’Informale, Roccafranca, Massetti Rodella Editori, 2010, pp. 5-8: 5.
19. Ivi, pp. 7-8.
20. Stefano Ferrari, La psicologia del ritratto nell’arte e nella letteratura, Roma-Bari, Laterza, 20022, p. 60.
21. Clelia Adami, Segno e materia. La mia ricerca di purezza espressiva, tesi di diploma accademico di II livello, rel. Pietro Ricci, Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia, Scuola di Pittura, a.a. 2006-2007.

22. Ibidem, p. 10.