Luca Cantore

L’INQUIETUDINE DEI NUMERI DISPARI, tutte le sfumature del turbamento


Quando lo scrittore Paolo Giordano, nel 2008, dava vita al suo celebre romanzo, intitolato

La solitudine dei numeri primi, probabilmente sapeva sin da principio di aver scritto una cosa tanto forte e roboante per il nostro presente. Allo stesso tempo, però, forse, egli stesso, non sapeva di aver creato una cosa ancor più forte e trasversale della stessa storia, da lui descritta e messa in opera nel libro. Infatti il grande merito dello scrittore, a seguito della sua pubblicazione, è stato quello di aver creato un’identità e di averla racchiusa, descrivendola perfettamente, in una categoria. Ovvero: a lui il merito per aver finalmente conferito un nome e dei tratti comuni ad un club pittosto folto di per¬sone, di esseri umani, la cui agitazione e irrequietezza nella vita non avrebbe potuto essere riassun¬ta della magrezza di un solo aggettivo. Fu per questo che si rese subito conto di necessitare assolu¬tamente di una metafora, di una frase, per coinvolgere e descrivere tutte quelle anime tormentate di cui ha scritto. E, proprio grazie a quella metafora, grazie a quel significato, creò un canone. Una definizione. Un circolo, sostanzialmente. Quello dei numeri primi, appunto. Un’altra cosa, ancora, però, probabilmente, Paolo Giordano non immaginava. E cioè che quando qualcosa funziona - una categoria, una definizione e le cose astratte su tutte - dà vita a tutta una serie di meccanismi e sottocategorie, che sembrano essere la naturale conseguenza della principale, all’interno delle quali il nostro animo sembra destreggiarsi con naturalezza e armonia una volta entratoci in sintonia. Per questa ragione si può dire con scioltezza che ci fosse mai una definizione esatta e puntuale da cui i lavori di Clelia Adami sembrano sbucare fuori sarebbe sicuramente ricoducibile alla sottocategoria esistenziale identificabile con la definizione di Numeri Dispari. E se volessimo, andando ancora più a fondo, dare un titolo generale alla sua opera che evochi, si ispiri e faccia rima con il libro di Paolo Giordano potrebbe tranquillamente essere L’inquietudine dei numeri dispari.

Sono dispari, i soggetti di Clelia Adami. Ma non per numero, s’intenda: quanto per connotazione. Laddove per dispari s’intende un’essenza composta di una materia sinistra, tormentata, crucciata, nervosa, sofferente. Silenziosa, come un boato assordante. Eppure, allo stesso tempo, nonostante ciò, mai rassegnata o dormiente. Tanto che a perlustrarli bene, i tratti violenti ed energici della pit¬trice che danno corpo e materia ai soggetti, sembrano urlare. Non a noi, o allo spettatore generico, no: ma a loro stessi. Si cercano tra loro, le tele di Clelia Adami. Si chiamano, si desiderano, si guar¬dano a vicenda insinuanti e invadenti. Come consapevoli della loro disumana condizione disumana a cui sono costretti, in cui sono ingabbiati, nella quale sono relegati, imprigionati, ma non morti. Vibrano le linee delle tele, palpitano i colori e i tratti strillano. Strillano di una voce reciproca e abissale che sembra poter essere sentita da tutti, ma intesa solo dalle stesse creazioni. Come i nume¬ri primi: divisibili solo per loro stessi; o, più pregnantemente, come i numeri dispari: appartenenti, in solitudine, al lato sbilenco e trafitto del mondo. Quel lato pervaso dal dolore del gesto artistico da cui esse stesse sembrano provenire e scalpitare: grazie ad una tela amara, virgulta, gestuale, forzu¬ta, mascolina. Si capiscono, tra loro, le tele di Clelia Adami. S’intedono bene e sbaragliano tutto ciò che è delicato, grazie al loro fare sfuggente e determinato. Enigmatico, evasivo e penetrante come gli sguardi molti soggetti, specialmente quelli femminili, che sembrano volersi scrosciare di dosso queste catene invisibili in cui l’artista le ha metaforicamente costrette - anche senza che ci sia un cenno grafico o figurativo - e da cui, è evidente, hanno urgenza di doversi liberare.

E’ un inno alla libertà, il lavoro di Clelia Adami. Uno sprono verso il gesto di trovare il coraggio di guardare in faccia i propri tormenti e le proprie paure. Un incoraggiamento all’ambiguo.

Un prontuario sentimentale per chi nell’arte cerca il proprio dolore. Che, in genere, è sempre dispari.