Mauro Corradini

LE FIGURE DI CLELIA ADAMI

In un testo recente, dedicato alla figura di Amleto, il poeta Yves Bonnefoy racconta di un attore-regista che guida un gruppo di spettatori che visitano Elsinore; l’attore-regista pensa mentalmente alla grande tragedia che dovrà recitare di lì a poco, tragedia di cui “ricorda la lucidità e nel contempo la misura”. Nel racconto del grande poeta, l’analisi trascorre dall’episodio al testo shakespeariano, in cui, oltre la scrittura, definita nel momento della creazione dell’opera, si evidenzia il processo creativo: oltre la parola, la tragedia racchiude “in sé tutta una parte ignota e inconoscibile, un inconscio”.  Utilizzo la riflessione del grande poeta francese come guida sotterranea nell’analisi dell’opera di Clelia Adami, che propone una breve silloge del suo cammino artistico con questa mostra. Il percorso di Clelia ci conduce sul segno che sembra costituire l’elemento primario nel muoversi della mano sul supporto (tela, juta, cartone, …).

 Le figure che Clelia propone in questa contenuta antologia coprono un decennio di attività; i temi sono riconducibili a nuclei limitati: in sintesi, si passa dal volto femminile, da cui parte e che costituisce il

nucleo più significativo, al volto tout-court, utilizzato, a volte, come ricerca di nuovi esiti o forse come modello “altro” del suo fare evocativo, fino al ciclo delle “ballerine” che, pur non discostandosi più di tanto dalla poetica dei volti, ha una sua autonomia espressiva. Va detto tuttavia che i tre nuclei si intersecano e si compenetrano; non sono dunque leggibili in sequenza storica.  Il segno con cui Clelia delinea i suoi personaggi nasce sul pretesto rappresentativo e si concentra sul valore del volto, stimolo assoluto soprattutto nei primi tempi, quando l’autrice vuole sottolinearlo attraverso lo scavo dei tratti, scanditi e ripetuti, insistiti, posti in dialogo con cromie decise e una gestualità chiaramente espressionista. Segno netto e cromie dense costituiscono il modello espressivo immediatamente leggibile.   Il volto diviene lo specchio di interne tensioni; affascinata dalla posa, intravista a volte per avventura, o costruita nello studio, attratta dai tratti che definiscono ogni volto, Clelia sembra voler ad un tempo muoversi alla ricerca dell’altro attraverso aspetti caratteristici del viso e allontanarsene, per rendere il volto come lo specchio di una diversa, individuale, inconscia tensione. L’inquietudine privata sembra emergere e trovare forma e figura in alcuni volti, cercati e ricreati nello sforzo di costruirsi una visione del mondo.  L’autrice non cerca, almeno apertamente e immediatamente, il “ritratto”; tende piuttosto a partire dal ritratto per trascrivere suggestioni, emozioni anche. È interessata al segno con cui costruisce

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l’immagine, fino a tradurlo nella forza espansiva della materia cromatica che utilizza. Come se dentro ogni volto potesse ritrovare il proprio io, al contrario, come se nel proprio profilo potesse ritrovare il volto del mondo.

  Specchio dunque che riflette il mondo esterno e le interne tensioni; ma specchio anche che porta in primo piano la forza del segno, l’espressività delle accese cromie, scandite con un’apparente  spontaneità costruttiva, spinta fino al limite di una soglia sempre pronta a rompere gli equilibri; linee che vorrebbero uscire dalla superficie dell’opera, grumi e pastosità che non vogliono trascrivere analogie con il mondo, ma tese solo a far risaltare l’irruenza del gesto e la forte accensione della materia picta: tutto l’insieme dell’opera dipinta definisce un’immagine che deflagra

fino a dissolvere ogni riferimento con la realtà. Ad un passo dall’astrazione, senza mai perdere la verità della figura; ad un passo dalla figura, senza approdare ad un racconto evocativo-narrativo che non interessa il suo fare espressivo. Se è vero, come è vero, che storicamente – lo ha affermato Klee, addirittura nel 1912 - l’espressionismo rappresenta la fine della pittura rappresentativo-narrativo (letteralmente, il grande astrattista parla di abbandono dell’oggetto), diviene agevole comprendere come, nel rapporto con il volto, Clelia non si preoccupi di narrarne la bellezza o il carattere (esperienze tipiche dei ritratti), quanto piuttosto di lasciar emergere individuali sensazioni, umori privati e succhi cadenzati, resi leggibili attraverso il filtro (lo specchio, appunto) della pittura: colori, materia, gesto.

Quella di Clelia è dunque una pittura che senza perdere la realtà del mondo si offre liberata dalla necessità narrativa; emergono il segno e il gesto impulsivo fino al limite di spingersi ad una soglia limite per negare le misure, per fare aggallare un’immagine, caratterizzata dalla forza espansiva della materia stessa, legata forse a quell’inconscio, da cui siamo partiti. Che si svela senza lasciarsi leggere fino in fondo.

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 Peculiare, in questo modello, l’incontro con alcuni visi, femminili soprattutto, anche se un Trittico, dedicato ad un volto maschile, si propone nel cuore della mostra come uno dei “passaggi” di questo viaggio. Seguendo il percorso di figure cui ci conduce l’Autrice, il viso viene sovente ridotto per frammenti, facilmente (fatalmente?) riconducibile al suo viso. Era (ed è) una pittura espressionista; era (ed è) una visioneinterpretazione dello spazio del mondo, racchiuso in quei grandi volti, strutturati attorno allo sguardo, vero faro attraverso cui Clelia si è impossessata dello spazio fisico dell’opera e dello spazio mentale del fare pittura: lo sguardo come espressione tanto del ritrattato quanto della pittrice.   Rimane a noi la lettura; emerge il viso come parte del corpo, sintesi comunicante di ciò che siamo, ma soprattutto specchio di quell’insieme di tensioni e pulsioni che si agitano dentro ognuno di noi. Per questo i suoi visi / il suo viso / sono pieni di una vitalità che va oltre i soggetti, presi a prestito dalla memoria o dalla storia e ogni viso si offre come un rinnovato salto nel cuore dell’essere. Ogni viso diviene una tensione, la corda tirata di un arco prima che scocchi il dardo, con variazioni espressive che oscillano tra la magia della bellezza e l’equilibrio instabile della forza pittorica che ne modifica, rinforza, sottolinea (cancella?) i tratti e il carattere.   Ogni viso è un viaggio per comprendere e occultare. E nel muoversi (scivolare) da tela a tela, da viso a viso, anche nel variare della posa, nel mutare del pretesto espressivo definito dal punto di vista dello sguardo,

il lettore-spettatore è costretto a modificare il suo individuale approccio con l’immagine: il viso si fa specchio del mondo, con la sua ininterrotta variabilità.

Mi sono sempre chiesto, da quando ho visto le sue prime opere, cosa mai avrebbe fatto Clelia, dopo la sua ricerca sui visi, per immaginare il (possibile) percorso espressivo nel cammino di un’Autrice che si è offerta con autorevolezza, fin dalle prime immagini. Senza prevedere nulla, tuttavia, anche perché un’antica lezione di storia dell’arte, specie nel contemporaneo, lascia poco spazio alle previsioni (pensiamo al ritorno al “classico”, per esempio, dopo la straordinaria ricerca che fu il cubismo).  Diciamo che Clelia non si è fermata al viso. Lo ha moltiplicato  e modificato come si può leggere nel

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citato “Trittico”, dedicato al volto maschile. Con il volto maschile muta la forma del ritratto; più materico, quasi gestuale, forse una memoria di quella disarticolazione linguistica, così tipica nella cultura del secondo dopoguerra, da cui provengono gli studi di Clelia. Nel trittico è la presenza/emozione della materia ad attraversare le linee del volto per imporre una diversa lettura.   Clelia ha cercato anche altrove il pretesto per esprimere la sua visione: dalla “ballerina”, che sembra occupare una parte non limitata di questa sua ricerca, fino al grande “Toro”, disteso, morente, in cui sembrano concentrarsi la violenza, non solo dell’animale, ma dell’intera storia tragica del Novecento.   Clelia ha (involontariamente) aiutato il lettore, facendo de-cadere l’oggetto, ed ampliando lo spettro pittorico dell’individuale emozionarsi. Rimangono i segni, aggalla la medesima energia interiore, quel singolare contrasto, già segnalabile al primo apparire, tra la figura, tutto sommato fragile, che Clelia propone, e la forza, la decisione, la tensione che i volti, prima e, ancor più, i segni delle ballerine oggi dichiarano (o testimoniano?).

Quel che noi vediamo, volti, figure, persone anche, nel ciclo delle ballerine, non sono che l’animo di una pittrice, che utilizza segni per manifestare sentimenti, tensioni e, a suo modo, una visione di un universo, che appare vitalissimo, anche se pieno di contrastanti equilibri: una sorta di non cercato ossimoro. Da cui deriva il transito alle figure delle ballerine: fragili

e leggere e tuttavia, quasi a contrasto, cariche di una forza che va ben oltre la punta dei piedi su cui si reggono nel loro muoversi lieve e aggraziato. La contraddizione tra la ballerina e l’evocazione pittorica emerge in un intrico di segni e grumi che definiscono e cancellano la figura.   Dicevamo più sopra che in ogni immagine (in ogni metafora) sfioriamo l’ossimoro; in una certa misura tutta l’opera di Clelia corre in direzione di un’espressività che attrae e scandisce i ritmi di una lettura del mondo, senza cedere alla piacevolezza della superficie (colori, ritmo compositivo, contrasti e materie).

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  I segni del mondo sono quel che sono, sembra volerci dire, la trascrizione di un’inspiegata inquietudine che deriva forse dalla nostra finitudine: siamo noi, il nostro essere, trasposto nell’immagine, come il volo leggero – ma quale incanto! – di una danzatrice che volteggia nell’aria e sembra voler contraddire le leggi della gravità; siamo noi, si diceva, appesantiti, nonostante il volo, come se le scarpette, nella nostra mente, magiche e rosse come quelle di Dorothy, di colpo si trasformassero nei pesanti e fangosi scarponi di Vincent.  Le ballerine, i ritratti, i volti femminili, sono il mondo di Clelia visto dal di-dentro.   Che cosa deve raccontare una mostra, se non il volo di una ricerca che insegue se stessa, prima ancora che le vicende del mondo?

Gussago, primavera 2019